Lasciati sbollire un po’ gli animi dopo le dichiarazioni di Umberto Eco durante la cerimonia di consegna della sua laurea ad Honoris Causa in Comunicazione e Cultura dei Media all’Università di Torino, interessa fare un attimo un’analisi rispetto alle parole del Professore e provare a riportarle riferendosi a quello che accade nel nostro piccolo circondario dei “siti di settore” e dei commenti che ne derivano.
Essenziale è ricordare come il diritto di parola ed espressione siano parti fondamentali nell’esperienza di vita umana, tant’è che non potrei scrivere questo articolo in caso contrario; però, talvolta però sui social si tende ad abusare di questo diritto e ricadere ogni tanto nel ridicolo e sovente in quello che ormai si potrebbe tradurre in una querela tramite offese, minacce o violenza a mezzo stampa.
L’esagerazione, la rabbia cieca, l’odio che trapela da alcuni commenti presenti sotto articoli o recensioni o notizie che vengono pubblicate sono chiare dimostrazioni di quanto il sig. Eco abbia ragione nelle sue esternazioni.
Quando ad esempio si pubblicano critiche ad un disco amato dai fan, poche volte si riesce a disquisire sul motivo per cui un disco può essere o meno piaciuto a livello tecnico; di solito l’obbiettivo della discussione sul web è, da parte dei commentatori, la difesa di un movimento (il rap old school, per fare un esempio) o la difesa a spada tratta del proprio beniamino, quando la realtà è che si cerca di analizzare banalmente il lavoro musicale a prescindere dall’autore.
La domanda che sorge spontanea, stando “dall’altra parte della staccionata” è: perché non si cerca una critica o un dibattito serio quando si commenta un elemento, ma nella maggior parte dei casi escono dichiarazioni incontestabili e perlopiù violente? Troppo spesso infatti si assiste a dibattiti su argomenti in maniera simile al tifo calcistico, con schieramenti a favore o contro un determinato oggetto che però mancano di qualità critica.
Dare degli imbecilli illetterati a tutti coloro che commentano o esprimono i propri pensieri in quel modo sarebbe riduttivo e anche molto sbagliato, però non ci si spiega come un vasto pubblico di qualsiasi età possa per la maggiore attaccare qualcosa di non gradito o che riporta una notizia contro il proprio idolo, il proprio beniamino, quando ad esempio potrebbe chiedere esplicitazioni sul contenuto dell’articolo in maniera tendenzialmente pacifica.
Non solo nella musica ma anche nel mondo della politica, gli insulti e i post anti-persona spuntano come funghi nel sottobosco della rete; i più agguerriti, come appunto fossero fan di un cantante o di una band, molto spesso auspicano la morte o l’impiccagione o quant’altro di violento possa passare per la testa di un uomo, di tutta la classe politica avversa al proprio partito. Che bisogno c’è di fare certe dichiarazioni? Augurare la morte o ingiuriare contro la famiglia tutta di un altro essere umano, in pubblico e su un social come può essere Facebook, dove tutti i commenti su pagine pubbliche sono disponibili a chiunque, oltre a poter causare guai legali al pubblicatore, è anche sintomo forte di degrado sociale ed indice d’ignoranza.
Eco appunto sostiene che prima della diffusione selvaggia dei social network che per alcuni sono una vera e propria fonte di dipendenza, nonché la prima fonte di informazione, certe espressioni, certe dichiarazioni, certe ingiurie erano “discorso da bar” che iniziava e moriva lì, per un piccolo pubblico ristretto.
Vero, la televisione e la stampa attuale non sempre forniscono grandi esempi civiltà nelle espressioni ma sono ambiti più selettivi: escludendo i format tv di un certo tipo, ma prendendo in esame ad esempio i talk show politici, possiamo notare che la quantità di spettatori non è sempre elevata, perciò l’opinione di taluno o talaltro non è diffusa come potrebbe esserla su Facebook o Twitter, piattaforme diffuse in ogni famiglia e con un’accessibilità ormai decisamente migliore rispetto a quella di programmi televisivi con determinate fasce orarie e con determinati argomenti presi in analisi puntata per puntata.
Inoltre come già detto precedentemente, questa facilità di diffusione e questa possibilità di “dire la propria” su qualsiasi argomento, sono equiparabili ad un disastro culturale per quelli che usano i social network come fonte d’informazione. Chi crede a determinate bufale create ad arte per prendere click diventa un soggetto pericoloso per la società perché condizionato da una determinata idea; per esempio quando venne creata la bufala della depenalizzazione della violenza sessuale, piuttosto che altri post dello stesso spessore, chiare fonti di calunnia nei confronti dei lettori che ciò nonostante si fanno tirare in mezzo da dichiarazioni forti e di conseguenza esternano la loro rabbia con altrettante dichiarazioni violente.
Voi cosa ne pensate? I social sono davvero un’arma a doppio taglio? A mio avviso sì, perché per quanto possano permettere la diffusione di pensieri e parole in libertà (oltre che svolgere altre funzioni come pubblicità ed organizzazione di eventi, album fotografici, chat, pubblicizzazione di testi e musica, etc.) spesso, senza controllo, si rischia di recare danno a qualcuno o qualcosa solo con delle espressioni offensive.
Fateci sapere la vostra opinione.
Vitto (twitter @vittoworldpeace)