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Miami, la logica del wrestling, il rap, il punk, l’incoscienza da teenager. Intervista a Max Pezzali.

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Puoi conoscerle tutte, le sue canzoni. Ma ascoltarlo parlare è un’altra cosa. Max Pezzali, in uscita con Welcome to Miami, si racconta in un’intervista fiume, fotografando, come ha sempre saputo fare, la società del momento.

La prima domanda è un atto dovuto. Welcome to Miami. Mentre Ax ci tiene in Italia con Ostia Lido, tu ci porti in un altro mondo.

Esatto. Diciamo che è stato un modo per me di “raccontare” con ironia la musica latina dal mio punto di vista. Che è quello dei tanti italiani che finiscono ogni anno a Miami, dove peraltro non abbiamo ancora capito che [l’estate n.d.r.] è considerata bassa stagione da loro per via del caldo umido enorme e dei fenomeni metereologici pericolosi che spesso accadono, specialmente ad agosto. Mi faceva ridere, perché io associo la musica latina a quello. Quando mi è capitato di andare a Miami, l’autoradio necessariamente ti portava in una stazione latino-americana perché comunque è una città con il 70% di popolazione latina.

Di fatto non è America, il Nord America è minoritario in quella situazione. Mi capitava spesso, quando ascoltavo dei pezzi latino-americani, di associarli alle mie vacanze lì. E quindi ho voluto raccontare quel punto di vista: l’italiano che arriva là dopo immense fatiche, l’aereo, l’immigrazione, e gli si dischiude davanti agli occhi il paradiso perduto. In realtà poi è anche un omaggio a una città che pur con tutti i suoi luoghi comuni e con tutta ‘sta roba degli italiani espatriati, la high life che molti tendono a ostentare, in realtà è una città che rappresenta un esperimento abbastanza strano, è una città che è nata fondamentalmente come luogo di buen ritiro per pensionati di religione ebraica, poi è diventata la capitale mondiale del riciclaggio del denaro del narcotraffico e oggi si è evoluta in città con una grande attenzione all’arte e alla componente LGBTQ della società. Quindi è una città che ha saputo cambiare facendo della sua unicità, anche etnico-culturale, un punto di vantaggio. Che secondo me è una cosa piacevole, sono alcune delle ragioni che la rendono così vitale e vivace.

L’estate è sempre stato un tema centrale della tua musica. Sia dal punto di vista della data di pubblicazione degli album, dei Festivalbar e dei testi, da Non ci spezziamo a Un’estate ci salverà. Ma l’estate salva davvero?

L’estate può salvare sì. Nel senso che l’estate è da sempre un momento di decompressione. L’estate è il momento in cui, specialmente quando ci sono delle situazioni storico-economico-politiche piuttosto complesse, si mollano gli ormeggi e almeno per il periodo delle vacanze non si vuole pensare a nulla. È la spensieratezza come stato di necessità per riuscire a sopravvivere nei restanti undici mesi dell’anno. Fondamentalmente. Quindi in qualche modo l’estate può salvare, sicuramente. Perché per lo meno permette di sopravvivere.

Per riprendere Le canzoni alla radio, in Volume a 11 parli dell’incoscienza dell’età. A 40 anni e 50 si può ancora avere quel sentimento?

Sì perché poi alla fine, oggi, l’incoscienza è un po’ l’unico valore che può aiutarti a sopravvivere in un tempo in cui la logica è saltata. Io sono cresciuto in un’epoca in cui le tappe della vita, ero ragazzino in un’epoca in cui ti spiegavano che le tappe necessarie nella vita erano quelle e quelle sarebbero state quelle per sempre. Uniche e immutabili. Avresti dovuto studiare per arrivare a una competenza che ti avrebbe permesso di avere un posto fisso da cui non ti avrebbe tolto nessuno, avresti fatto la tua carriera precisa e codificata da cambi di categoria e, insomma, salite di livello già pianificate al momento dell’assunzione, saresti arrivato con la tua famiglia in pensione con una certa sicurezza e una serenità quasi da cittadino modello della Germania dell’Est. Quel tipo di pianificazione in cui sembrava che la società si prendesse cura di te. Crescendo è cambiato tutto, nel momento in cui sono diventato adulto io, il mondo è cambiato. Ci sono tanti muri, è arrivata la globalizzazione, è arrivata la delocalizzazione, è arrivato internet, sono arrivate tante cose e oggi le certezze non esistono più. Quindi l’incoscienza è l’unico valore che puoi avere in un mondo incerto.

Perché se sei abituato a seguire le logiche deterministiche che il mondo precedente ti ha inculcato, sei morto. Perché quella roba lì non funziona più. Oggi bisogna continuare a reinventarsi, a cambiare le carte in tavola a partita in corso e quindi essere, di fatto, incoscienti.

Hai anticipato la domanda. Rotta per Casa di Dio. Il racconto di una serata ma anche il viaggio di una vita?

Certo, quello è. È uscire dal programma in maniera forzata e trovarsi poi ad avere una gioia inaspettata, comunque a passare una bella serata indipendentemente dal fatto di non aver raggiunto l’obiettivo che ti eri prefissato. È un po’ la vita. Cresciamo con degli obiettivi che ci prefissiamo, pensiamo di poterci arrivare a tutti i costi, vogliamo arrivare lì e poi spesso questo non accade. Quindi l’indeterminatezza del nostro percorso ci porta poi a… non devi viverla come una frustrazione ma devi saper cogliere le cose inaspettate, le piccole gioie inaspettate che anche le deviazioni dal percorso principale ti possono offrire.

Questa te la chiedo perché una mia amica se lo domanda da sempre. È “Senza fidanzate, virgola, troie né mogli” o “Senza fidanzate troie né mogli?”

Essenzialmente era… perché lì funzionava così. Erano tre diversi livelli di frequentazione femminile, oggi un pezzo del genere non potrebbe uscire perché verrebbe considerato quanto meno di dubbio gusto. Ma in realtà era un modo per sottolineare il fatto che nel grande scenario del bar c’era quello che si portava la fidanzata storica che poi sarebbe diventata moglie, quindi passava dal punto uno al punto tre. E poi c’era chi portava al bar la bellona un po’ complessa solo per poterla sfoggiare e spesso era semplicemente una logica di esibizionismo, perché c’erano figure femminili che salivano solo in auto particolarmente lussuose, si facevano portare in posti particolarmente fighi. E quella era la categoria numero due, diciamo.

Avete inventato, secondo i critici, la musica constatativa, una foto reale di quello che succedeva in provincia nei ’90. Zola, Verga, il neorealismo di De Sica. Come si fa a raccontare davvero cosa succede attorno?

Secondo me essenzialmente basta viverlo. Nel senso che noi lì ci siamo arrivati attraverso un percorso, che era quello di voler scrivere le canzoni a tutti i costi, era la cosa che ci piaceva di più fare, avremmo voluto diventare dei bravi professionisti in questo e non ci siamo riusciti perché adattandoci a modelli narrativi che vedevamo in giro, in pratica cercavamo di raccontare quello che già altri facevano meglio di noi. E quindi diventava sempre una copia sbiadita di qualcosa che era già stato raccontato. Fino a quando non abbiamo capito che il racconto del nostro centimetro quadrato circostante, cioè l’infinitamente piccolo intorno a noi e l’estremamente prossimo, nel senso di vicinanza, poteva piacere o non piacere ma era unico, era una cosa che potevamo fare solo noi perché quel mondo lì lo conoscevamo solo noi. Perché ci vivevamo dentro. Quindi è stata una necessità, mutuata dal fatto che non riuscivamo a scrivere canzoni come facevano gli altri, venivano peggio, essenzialmente.

La provincia è un punto di partenza, di arrivo, un checkpoint durante il viaggio di una carriera?

La provincia è un po’ come quel famoso adagio, è come il ghetto no? Tu puoi uscire dalla provincia ma la provincia non esce mai da te. Essere provinciali è prima di tutto una categoria dello spirito, è un senso di inadeguatezza nei confronti delle cose che avvengono nei luoghi importanti, ci si sente sempre secondi o terzi, arrivati dopo. È quindi un’incapacità di sentirsi all’altezza, ecco. E quindi quella roba lì, quell’inadeguatezza lì, ti rimane per sempre. La provincia per me, ad esempio, ha rappresentato il punto di partenza perché lì ci vivevo e non vedevo l’ora di scappare, quand’ero giovane non vedevo l’ora di andare via da lì perché la sentivo come una sorta di morsa claustrofobica che non mi permetteva di esprimermi completamente, perché tutti conoscono tutti, tutti parlano di tutti. Tu sei sempre lo stesso che eri a otto, nove, dieci anni, non cambierai mai. Nella logica della provincia ci sarà sempre qualcuno che ti riporta a quello che eri prima e in un punto x della tua vita. Non sai quando viene scelto il momento della fotografia che ti accompagnerà per sempre, quindi potrebbe essere che avessi le dita nel naso, potrebbe essere che…

Quindi quella roba lì ti condiziona. Non vedi l’ora di andartene. Crescendo, magari hai la possibilità grazie, nel mio caso, al lavoro, di frequentare Milano, di girare l’Italia e girare il mondo, di trasferirti magari anche a vivere in un altro posto. Poi però, come nel mio caso ci torni. E ci torni consapevole però del fatto di non esserne più schiavo. Cioè ci torni alle tue condizioni, ci torni in qualche modo liberato da questa ossessione di come gli altri ti possano vedere o ricordare o immaginare. Perché alla fine scatta un momento di consapevolezza in cui te ne freghi, semplicemente dici, non è solo il luogo degli altri, ma è anche mio. È un luogo anche mio e quindi posso starci, posso essere quello che voglio anche in questo luogo indipendentemente da quello che possano pensare gli altri. Quindi in qualche modo è un punto di partenza e un punto di ritorno perché te ne reimpossessi.

Max Pezzali - Intervista
Max Pezzali – Intervista

Hai cantato Leggero di Ligabue. Anche lui racconta la provincia italiana. Che differenze vedi tra voi due?

Io credo che l’abbiamo raccontata magari in momenti diversi, in epoche diverse. Il suo album è uscito quando io cominciavo a scrivere canzoni ed è stata un’influenza fondamentale, perché rivedevo dei posti molto simili a quelli che frequentavo io, rivedevo la nebbia della pianura padana, rivedevo le serate alla ricerca di qualcosa che poi alla fine non arrivava mai, una sorta di eterno sabato del villaggio ciclico e continuo. C’era sempre questo bisogno di evasione, questo bisogno di “America”, perché era l’immaginario più facile, più vicino per me, ma che però non si realizzava mai, dovevi sempre fare i conti con la tua realtà. Io credo che, più che parlare di differenze, sia stato molto confortato dall’immaginario e dal racconto di provincia di Ligabue, quando ho cominciato e quando ancora muovevo i primi passi nella musica, perché mi dava l’impressione che qualcuno avesse capito quello stato d’animo lì e in questo modo facesse sentire meno solo chi lo viveva, magari a distanza di un centinaio di chilometri, ma non riusciva a esprimerlo ancora in musica. Credo che sia stato estremamente illuminante l’apporto di Ligabue per questo modo di raccontare le cose.

Nel tuo libro I cowboy non mollano mai dici che hai smesso di fare il servizio delle ambulanze perché eri troppo conosciuto. Ti manca? Il servizio sociale cosa ti dava?

Io credo che quella cosa lì specifica, appunto il volontariato sulle ambulanze, sia una delle più grandi fonti di endorfina che si possano immaginare. Perché c’era tutto. C’era il rapporto con le persone, spesso in difficoltà, in una fase della propria vita non particolarmente felice o in un momento traumatico, e quindi c’è l’aspetto umano in cui in qualche modo devi far scattare un’empatia molto importante per riuscire a creare un rapporto con il paziente che stai portando in quel momento, ma un’empatia limitata e controllata perché altrimenti non fai bene il tuo lavoro. Cioè, devi riuscire a mantenere, devi essere empatico ma allo stesso tempo distaccato per non lasciarti sopraffare dalle emozioni e quindi mantenere intatto il tuo protocollo d’intervento che è punto uno, punto due, punto tre, se succede così punto quattro, se succede cosà punto cinque. Se no fai male il tuo lavoro. Quindi è un’importantissima palestra di vita e di umanità, perché da un lato c’è l’aspetto umano e dall’altro c’è l’aspetto tecnico che non puoi dimenticare. Perché se no non fai il bene della persona che stai trasportando o con la quale stai avendo un’interazione. E poi è la bellezza che, in un’epoca pre-118, cioè pre-centralino unico, arrivava la chiamata, partivi in un’urgenza e non sapevi che cosa potessi aspettarti, era l’ignoto, ti davano certi sintomi e poi arrivavi là ed era tutta un’altra cosa, era perché le persone spesso non sanno spiegare nel momento della concitazione. Quindi c’era questo effetto di ignoto, di scoperta mista all’adrenalina per cercare di risolvere il problema al più presto, però devi anche ragionare, quindi evitare di fare mosse azzardate che possano in qualche modo pregiudicare la qualità del tuo intervento… È stata un’esperienza essenziale della mia formazione non solo umana ma anche professionale. Dominare l’ansia, in certi momenti è la chiave di tutto no? Avere quel momento di distacco in cui tu possa continuare a concentrarti sul tuo protocollo perché altrimenti fai un casino. Se ti lasci soggiogare dalle emozioni fai un disastro. Spesso succede anche nel mio lavoro. Durante un concerto, quando esci, se ti lasci prendere troppo dall’emotività del momento, plausibilmente non cominci. Se invece riesci a vivere l’emozione, però con un minimo di controllo, a quel punto ti è utile anche nel lavoro.

Quindi si può essere star e bravi ragazzi contemporaneamente?

Non credo che esista l’idea generale di bravo ragazzo. Io credo che esista una logica di saper stare al mondo, essenzialmente. Nel mio lavoro si rischia di credere troppo a quello che dicono le persone di te. Nel senso, non devi mai credere a tutto, crederci sempre, crederci troppo. Non devi crederci quando qualcuno ti dice “Bellissimo, è una cosa fighissima, sei un genio, sei un fenomeno” e non devi credere a quando ti si dice “E vabbè però questa cosa non va bene, chissà, bla bla”, Devi saper gestire la tua vita professionale sapendo che, dato che quello che fai ha a che fare con le emozioni, perché questo cerchi di raccontare o cerchi di indurre nelle persone, qualcosa che ha emozionato te cerchi di renderlo emozionante anche agli altri. Puoi riuscirci o non riuscirci però non devi mai dimenticarti che questo fa parte del gioco. Cioè. Non esiste l’essere star, questa roba qui è parte della sovrastruttura. L’essenza di questa roba qui sta nel tuo essere una persona in quello che vivi al di fuori di qui, in quello che riesci a portare a casa dall’interazione con le persone, che tu ti trovi su un treno o in mezzo alla strada, devi sempre ricordarti che il tuo rapporto con le persone è quello che ti permette di fare il tuo lavoro perché, dalle loro parole, spesso nasce un’idea tua. E quindi devi continuare a ritenerti cittadino del mondo e persona che interagisce con tutti gli altri perché nel momento in cui ti allontani da tutto questo non hai più nessun tipo di interscambio con le persone e lì ti inaridisci, non c’è niente da fare, non riesci a raccontare più, parli solo per te stesso, non parli a nessun altro.

Con Cumuli hai denunciato lo stigma della droga nei ‘90. Adesso i rapper/trapper si vantano delle righe. La tua sull’argomento.

Credo che di fatto sia cambiato molto il linguaggio e credo che nel mondo rap e trap in generale, si ragioni molto all’americana… è un po’ un ruolo quello che viene interpretato no? È stato un passaggio. Per esempio in America si sa, da sempre. È la logica del wrestling, quella che io chiamo l’accettazione del wrestling. In Italia abbiamo sempre l’idea di personalizzazione del racconto. Cioè chi racconta, lo fa sempre in prima persona e racconta la propria vita, la propria esistenza. Salvo poi scoprire che la canzone l’ha scritta un altro (ride). Però si tende a personalizzare il significato della canzone adattandolo a chi la canta. In America da sempre si sa quello che nel wrestling è evidente. I wrestler non combattono, eseguono una coreografia, è questa la cosa. C’è chi si lamenta dicendo “Non succede davvero”, ma è chiaro che non succede davvero. La figata sta nel tipo di spettacolo che si riesce ad allestire. Nel country, faccio un esempio stupido senza andare al rap, che poi, dicono, è sempre il rap. No, andiamo nella cosa più bianca, anglosassone e protestante che possa essere immaginata nel panorama americano, cioè la country music. I temi sono sempre quelli. Uno dei protagonisti è il whiskey, l’altro è il treno, l’altro è la madre perduta, l’amore perduto che porta al whiskey e al viaggio in treno per tornare da… cioè. È una narrativa, un modo di raccontare. Allo stesso modo nel rap. In America non verrebbe in mente a nessuno di pensare che quello realmente… cioè voglio dire, dagli NWA in poi, nel gangster rap, fuck the police, spara di qua spara di là, in realtà nessuno degli NWA aveva mai sparato alla polizia, ma era un modo di raccontare con tinte forti uno scenario. Era un telefilm. Credo che pensare che i ragazzi che ascoltano musica siano realmente convinti che quello che si racconta sia tutto vero e sia tutto vero con quelle caratteristiche lì, sia sminuirne un po’ l’intelligenza. Bisogna capire che quella roba lì è un racconto, una narrativa, non è necessariamente il vissuto raccontato in maniera didascalica dal rapper. È un racconto. Un racconto in prima persona però è un racconto, un’esagerazione, portare le cose alle estreme conseguenze. Per il bene della narrazione, portare il tutto al di sopra di qualche scalino. E secondo me in Italia c’è ancora questo problema che si tende a pensare che la canzone debba essere necessariamente e pedissequamente autobiografica al dettaglio. Invece no, la canzone può non essere quella roba lì. Ripeto, non è mai stato così e non sarà mai così. Ci sono degli elementi autobiografici che tu puoi cogliere, c’è chi ne mette di più e chi ne mette di meno, però poi esiste un adattamento alla narrazione, quello è fondamentale. Se no cadiamo nel problema Gomorra, “E vabbè allora, quelli lì che sparano, il meccanismo imitativo…”

Allora Scarface non lo facciamo? Bisogna pensare al fatto che sia una narrazione e non un’esperienza autobiografica al 100% o un’istigazione a qualcosa, non lo è.

Quanto è stato importante il rap nella tua vita personale e professionale?

Il rap per me è stato importante, dal punto di vista della visione, è stato importante quanto il punk. Cioè, il punk prima e il rap dopo sono stati due dei momenti di grandissima cesura, di cambiamento totale. Quando, negli anni Settanta, la musica era diventata estremamente complessa, articolata e inutilmente piena di orpelli, ottimamente suonati e cantati, ecco che arriva la potenza devastante del punk che con tre accordi suonati più o meno così così e una voce urlata spaccano il mondo e resettano tutto. Allo stesso modo, negli anni Ottanta, succede la stessa cosa con il rap, con la cultura hip hop che arriva e cambia tutto, cambia le carte in tavola. Soprattutto, nella mia testa, arriva tutto il mondo della Def Jam, quindi arrivano i Beastie Boys, i Run DMC, soprattutto i Public Enemy che dicono “Run DMC first said, a deejay could be a band”. La musica non è più fatta solo dai musicisti e dagli addetti ai lavori tra virgolette, ma è il dj che fa la musica. Sono il dj e il suo campionatore che prendono pezzi, li rimettono insieme e costruiscono delle solide fondamenta sulle quali il rapper può raccontare la propria storia. E questa è una cosa, secondo me, rivoluzionaria a un livello incredibile. Senza il rap, diverse generazioni di musicisti non avrebbero neanche tentato di avvicinarsi alla musica, perché sembrava una cosa solo per musicisti. Il rap ha fatto capire che la musica poteva essere fatta anche dai non musicisti. È anche un cambiamento di linguaggio incredibile, si è arrivati a parlare direttamente in faccia alle persone e non solo a cantargli più o meno nell’aria da lontano, ecco.

Per te che hai cominciato quando c’erano le cassette (mi ricordo che quella di Nord Sud Ovest Est fosse colorata) e che hai sempre dato importanza al pack di un album (La Donna, il Sogno & il Grande Incubo con la cover lenticolare, i fumetti, le figurine in La Dura Legge del Gol!) cosa ne pensi della musica 2.0 dal punto di vista di Youtube, Spotify etc?

Io credo che sicuramente ci sia stata una smaterializzazione. Da utente è tutto molto più pratico, per amor di Dio, tutto molto più figo. Però il fatto che non esista più un supporto, un qualcosa che si mette da qualche parte per suonare la musica, credo abbia tolto un po’ di capacità e possibilità di immaginazione. Nel senso che oggi ciò che di visivo puoi associare alla musica, lo puoi fare solo tramite il video. Fondamentalmente con il video su Youtube o con l’estratto, il frammento di video su Instagram, o con le cosette su TikTok, quei video virali delle persone che cantano sopra le canzoni, quello lì è quello che ha sostituito il packaging, è quello che ha sostituito il mondo visual legato alla musica. Però credo che oggi sicuramente ci siano delle possibilità infinite. La smaterializzazione della musica e l’apertura delle piattaforme ha reso più immediato il passaggio da idea a realizzazione dell’idea stessa. Quindi un ragazzo che comincia oggi ha la possibilità di arrivare immediatamente a vedere il proprio prodotto in rete. Punto è che, essendosi alzato il livello dello scontro, ed essendoci tantissima gente che lo fa, è molto più difficile superare la soglia dell’indifferenza. Per questo chi fa musica si è trasformato in un content creator, deve creare contenuti indipendentemente dal medium che utilizza. Quindi deve sapere fare, o deve avere un amico che sa fare video, e farlo bene, deve avere l’amico che sa fare editing e color correction a livelli professionali col computerino di casa… bisogna essere un gruppetto di persone molto competenti in quello che si fa per riuscire a superare la soglia di attenzione, e quindi riuscire ad arrivare a un livello successivo.

Per chiudere. “… e forse quel che cerco neanche c’è”. C’era?

Non lo so. Io lo sto ancora cercando. Sono convinto che l’insoddisfazione come stato d’animo generale della vita sia una grandissima fregatura perché non ti permette di essere felice neanche quando arrivi a degli obiettivi importanti, quindi bisognerebbe limitarla, ma l’idea di continuare a cercare, continuare a ricercare se stessi e cercare il proprio personale  Sacro Graal diciamo così, durante il ciclo della vita, sia un ottimo modo per non fermarsi, per non sedersi e per non rimanere invischiati. Ecco, l’umanità è cresciuta non grazie all’appagamento della conquista ma grazie alla continua insoddisfazione, continuare a porre cioè un obiettivo successivo. Quindi in qualche modo è vero che è una rottura di palle, ma il non sentirsi mai appagati in quello che si è ottenuto può essere utile per alzare costantemente l’asticella.

Michele D'Amore
Michele D'Amorehttps://www.micheledamore.it/
Nato in Sardegna, mi innamoro dei libri a casa, con un amore odio che mi porta a giocarci, calciarli e scoprirli. Il mio primo libro è Mamma mi leggi. E poi Robinson Crusoe, Verne, Gotta. Da adolescente scopro i tascabili e leggo di tutto. Mi innamoro di Zola, Verga, di Oriana Fallaci. Amo Grisham, Peace, Clancy, Follett, Welsh e Manzoni ma, soprattutto, Calvino e Vittorini. I miei titoli preferiti: Marcovaldo, Colla e Uomini e No. Amo l'indipendenza, la libertà. Sposo l'idea di una letteratura popolare, dedicata a tutti.

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