Capacità di analisi, preparazione, lessico.
Perché ascoltare un rapper non vuol dire solo sentire i suoi pezzi, ma, a volte, lasciarlo parlare, per capire che il background conta.
E la cultura personale anche.
Partiamo dalla collocazione. Come fotografi il momento di questa musica?
Prendo? Vado? Via. Si può dire che, apparentemente, in linea di massima, stiamo assistendo a un momento di espansione, a una golden age ritrovata, anzi per la prima volta dal punto di vista del mercato, perché erano tantissimi anni che non assistevamo a un boom così forte di un genere musicale. Quel genere musicale adesso è il rap. Da un po’ di anni a questa parte è diventata la musica di tutti, non solo delle persone che stanno dentro la cultura hip hop, se si può definire così. Questa roba ha un po’ scardinato tutto, in senso positivo, perché tutti quelli che fanno rap hanno più possibilità di suonare, avere più gente che le segue etc. Il problema è che chiaramente, quando la cultura, però mi spiace dire cultura, quando il movimento hip hop incontra il generalismo, diciamo, la cultura pop, banalmente la cosa si annacqua. Nel senso, tutti possono fare questa roba, tutti vogliono fare questa roba, gli youtuber vogliono fare questa roba. Quindi la minaccia è che si perda un po’ il canone estetico, quello di riferimento, di continuità culturale con quello che c’è stato prima.
Che non è un’affermazione da vecchi scoreggioni, è l’idea di continuità con un movimento che ha delle basi, che si è creato e che comunque vive di… non dico di regole però di principi base che comunque portano avanti la cosa con continuità, ecco. C’è stato proprio un punto di rottura, che di per sé non è una cosa negativa però, chiaramente, si sta ripartendo da zero, con tutta l’ingenuità del caso, con tutti gli entusiasmi momentanei e con tutti gli instant idols del caso.
Poi si vedrà, magari fra qualche anno, quando la roba sarà più radicata, se, diciamo, si svilupperà meglio, si svilupperà una continuità con questo nuovo movimento. Non lo so eh, perché comunque lo vedo come un momento aureo che però potrebbe lasciare feriti tra qualche anno, ecco.
Hai uno studio di registrazione, quindi ti confronti ogni giorno con le nuove giovani realtà. Rispetto alla vecchia scuola che tu conosci quali sono le particolarità dei nuovi ragazzini?
Ok. Proprio in continuità con la prima domanda, per mia fortuna a livello lavorativo (ride), tutti si sentono pronti anche dopo pochi mesi. Io mi ricordo comunque, nella mia epoca (mi fa ridere chiamarla epoca), c’era una cosa che si chiamava gavetta. Ci si guardava dentro e ci si diceva “Vale la pena che vada a registrare sta roba o forse è meglio approfondire un po’ più il discorso?”
Sai, non per altro, ma per fare una bella figura quando lo fai.
Al giorno d’oggi c’è molto questa urgenza di essere visibili, di essere comunque social, di essere esposti. E questo si riflette anche nel rap.
Quindi era una cosa più di rispetto personale quanto di rispetto del movimento hip hop etc.
Al giorno d’oggi c’è molto questa urgenza di essere visibili, di essere comunque social, di essere esposti. E questo si riflette anche nel rap, che è una cosa che puoi fare, di fatto, se riesci a incastrare due rime, non è come suonare una chitarra che la prendi in mano e sai come fare.
La cosa bella del rap è la naturalezza con cui tu puoi raccontare la tua storia e il tuo vissuto, e questo lo vedo molto nei ragazzi di oggi. Però da un altro punto di vista vedo poco studio a livello tecnico che rende le cose comunque migliori. Ma non perché me lo ha detto Afrika Bambaata che va fatto, ma perché quando una cosa è tecnicamente figa, anche se le persone non se ne accorgono, diventa più piacevole all’ascolto.
Quindi bene, perché i ragazzi hanno una valvola di sfogo per esprimersi in maniera facile, diretta. Però io consiglio alle persone di studiare un po’ di dischi americani, proprio per capire cosa stai facendo, non perché sia una legge non scritta del rap, che se non ascolti Epmd sei un sucker. Nel senso. Ormai queste cose per fortuna sono finite. Però ti può aiutare a capire cosa stai facendo.
Un allenatore di calcio va a studiarsi l’Olanda, il Milan di Sacchi, perché così ha più cognizione di causa del suo lavoro.
Dani Faiv è un po’ un tuo ragazzo. Per te che sperimenti i palchi di persona, cosa significa impegnarsi sul lavoro di un altro?
Beh, chiaramente è una cosa che ho potuto fare crescendo. Uno perché quando sei più adulto, il protagonismo, anche se non scema, ti permette comunque di lavorare anche con gli altri. Poi io per attitudine sono uno che ama fare squadra, vengo dalle realtà delle crew di piazza, vengo dal fatto di farcela assieme, nel senso è una cosa che ha sempre caratterizzato le mie ambizioni dai primi anni, quando giravo coi miei amici Kuno, Bat, cioè. Farcela assieme era comunque una cosa a cui credevo tanto. E poi chiaramente i miei amici hanno preso altre strade e io mi sono trovato in un’altra realtà come quella di Machete.
Sono uno che ama fare squadra, vengo dalle realtà delle crew di piazza, vengo dal fatto di farcela assieme.
L’incontro con Dani Faiv mi ha un po’ riavvicinato a quella roba di fare crew, di fare squadra assieme, di avere una passione comune per il rap, perché lui è molto simile a me negli ascolti, nel senso ascolta tanto rap americano, viene da una cultura hip hop forte. E quindi con lui è stato bello perché mi è piaciuto vedere un artista acerbo svilupparsi, un po’ grazie al mio aiuto, un po’ grazie al suo innegabile talento. Sono disposto a dividere i miei momenti di impegno anche nei confronti di altre persone, però adesso sono concentrato di più sulle mie robe. Anche perché Dani ha iniziato a volare con le sue ali, non ha più bisogno di me. Magari come amico e collega, ma non come mentore. Sono contento perché, in maniera molto naturale, abbiamo sviluppato il discorso di un ragazzo poco conosciuto che poi invece adesso è un vero e proprio artista. E questo penso sia il risultato del suo talento e del lavoro congiunto.
Con il collettivo Machete hai sperimentato sonorità diverse rispetto al tuo percorso precedente. L’hip hop è contaminazione?
Per come lo intendo io, per quello che piace a me, per come sono cresciuto io, l’hip hop è New York, è lo slego fatto bene, metrico, i giochi di parole, gli incastri di un certo tipo. Perché a me è quello che mi ha fatto sognare e che mi ha lasciato un imprinting di gusto. Mi ascoltavo sta roba da ragazzino e quindi i miei gusti vanno in questa direzione.
Detto questo, c’è un sacco di gente in America che porta avanti la continuità della formula New York degli anni Novanta. Quindi che ne so, School Boy Q, Kendrick Lamar, anche gente non di New York, ma gente che porta avanti questo discorso che piace a me.
Per come lo intendo io, per quello che piace a me, per come sono cresciuto io, l’hip hop è New York.
Detto questo l’hip hop è sempre stato contaminazione culturale perché è l’incontro di culture diverse. Cioè il primo dj era un jamaicano trapiantato a New York, rappers latini come i Cypress Hill hanno portato quell’influenza lì, diciamo che l’hip hop è un contenitore dove poi le differenze culturali vengono esaltate dal modo in cui tu fai la tua roba rappresentando il tuo quartiere, la tua cultura, e questo si vede poi nella roba musicale.
Quindi da un certo punto di vista sì, è contaminazione.
Personalmente non sono particolarmente esaltato dagli esperimenti ibridi, di musica poco black, nei confronti del rap. Per qunto mi riguarda eh, ma anche lì non è una regola scritta, è il mio gusto personale.

Parlando di contaminazione, la trap. Per molti un genere a sé stante, per altri solo un fenomeno di passaggio. Per te cos’è?
Beh, è difficile da dire. Sicuramente è stata una rivoluzione incredibile nel rap perché prima, come dire, il rap necessitava di un certo tipo di capacità di incastro, di saper fare le rime. Adesso chiaramente, con un altro canone estetico, la roba è diventata diversa. Mentre magari noi, cresciuti nei 2000, diventati maggiorenni nei 2000, avevamo una forma di continuità rispetto a quello che c’era prima.
Come ti dicevo nella prima domanda, c’è stato un punto di rottura.
Come è giusto che sia, perché a livello culturale i ragazzini vivono un altro universo di riferimento e quindi ha senso.
Quello che dico magari è che fra un po’ dovremo fare delle classifiche differenti, non dobbiamo mettere nello stesso calderone, per non fare confusione, uno che magari canta e basta, rispetto a uno che rappa.
Secondo me fra qualche anno sarà anche giusto fare la classifica trap, o quello che è, e la classifica hip hop. Non voglio dire proprio trap, magari una roba più strettamente cantata… cioè fare delle categorie per far capire alla gente un po’ di più di questo movimento.
Cosa ne pensi dell’autotune.
(ride) Usato bene può funzionare. Non ho preclusioni particolari verso l’autotune. Io non l’ho praticamente mai usato, l’ho utilizzato un paio di volte, mi capiterà di usarlo ancora forse. Però dipende, come salsa va bene, come piatto principale a me dopo un po’ asciuga.
Se viene usato in maniera standard, l’autotune crea una standardizzazione pesante del prodotto che vai ad ascoltare.
Però chiaramente può dare risultati estetici che alla gente piacciono. L’unica cosa è che, se viene usato in maniera standard, crea una standardizzazione pesante del prodotto che vai ad ascoltare. O sei capace di giostrare la cosa in maniera originale o comunque l’effetto dell’autotune ti porta sempre allo stesso effetto, per usare un gioco di parole. Allo stesso risultato. Diventa un po’ monotona la roba.
In molti aspettano il tuo nuovo album che, da spoiler, sappiamo essere in lavorazione. Puoi anticiparci qualcosa in merito?
Quello che posso dire è che quest’anno ho lavorato sodo e i risultati si vedranno a breve, ecco. In quest’anno ho fatto tante cose. Quello che è successo già da un po’ di tempo, mi sono un po’ distaccato dall’ambiente e dalle influenze esterne, perché volevo fare un discorso scevro dalle pressioni e dalle opinioni degli altri. Quindi comunque mi sono messo molto per i cazzi miei, ho fatto le cose come piacevano a me, che magari non sempre ti viene da fare, perché comunque il mondo esterno chiama, le influenze esterne ti pressano la testa. Quindi quello che ho fatto è stato cancellare un po’ le influenze del mondo esterno, tirare una riga ed entrare in studio pensando a quello che io volevo fare. Nessuno mi ha obbligato mai a fare niente eh. Però a volte, quando senti la pressione di un salto di qualità anche, che ne so, come un giocatore di periferia che si ritrova al Milan e magari si caga anche un po’ sotto in effetti. Quindi magari ecco, riprendersi un attimo il proprio posto, senza stare a guardare il mondo esterno cosa ti chiede, etc. Poi il fatto di sparire un po’, che magari è un po’ una cosa suicidal al giorno d’oggi, perché comunque devi pubblicare in continuazione, fare singoli, etc, proprio per questo motivo il fatto di avere meno pressione dalla gente mi ha dato più serenità. Ho potuto ragionare a ciò che volevo io in maniera personale. Quindi sicuramente, quello che posso dire è che quest’anno ho lavorato molto alla creazione del nuovo disco e a breve ci saranno sicuramente news.
Possiamo avere un’anticipazione degli argomenti che andrai a trattare?
No.
In un momento in cui per tutti un album ha sette tracce, in cui non ci sono più i mixtape, in cui lo streaming ha tolto le barriere, cosa significa impegnarsi a fare uscire un disco nel vero senso del termine?
Non è una mossa molto intelligente (ride) a meno che tu non abbia un mercato veramente grosso, perché comunque al giorno d’oggi proprio questo è il fatto. Ci sono molti singoli, i dischi magari sono composti da poche tracce… forse la cosa positiva è che non si fanno più quei dischi di sedici, diciassette pezzi, in cui ci sono sempre dei riempitivi. Il fatto buono è che puoi fare un disco di dodici, tredici tracce dove tutto quello che metti dentro è significativo.
Però, effettivamente, la scelta di fare un disco la sconsiglio a quasi tutti quelli che vengono nel mio studio perché al giorno d’oggi è una fatica che non vale la pena di essere sostenuta, nei tre quarti dei casi.
Poi in realtà magari ti va bene e crei anche un disco culto, come è successo recentemente.
Si coglie un po’ il m0mento, quando vedi che uno, due singoli vanno dici, è arrivato il momento, entro quattro o cinque mesi faccio uscire questo disco di sette/otto pezzi e mi porto a casa il massimo risultato possibile.
Come si fa a raggiungere un flow come il tuo?
Penso per esempio partendo dall’inizio, quando ho fatto uscire L’Alba, ero bravo a scrivere, sicuramente ma a rappare ero ancora un po’ standard, c’era un po’ di quell’influenza milanese che comunque era normale in un ragazzino di diciott’anni. Da quel momento in poi, perché è una cosa che ho capito ascoltando il disco subito dopo, lo studio dell’incastro delle parole è diventato importante per me, ma già lo era a livello personale perché ho sempre fatto dei giochi di parole come forma di battuta. È proprio il mio pezzo, questa roba di incastrare le parole in maniera, prestata al rap secondo me era naturale. Per quanto riguarda il flow è che ho dei buoni esempi: il rap di New York, quello che io definisco il rap fatto bene. Cercare dei riferimenti e poi rielaborarli in maniera originale. Anche perché poi da ragazzino uno prova a copiare, ma non essendo capace fa qualcosa di paradossalmente originale, che rende. Poi negli ho comunque affinato il mio modo di far le robe e secondo me c’è continuità da V.Ita ad adesso, metrica e stilistica.
Tanto studio, come in tutte le cose. Tanto studio, tanto impegno e tanta fatica.
Ti ricordi: “Non basta sbattimento se non c’hai talento, ma se c’hai talento, serve sbattimento”,
Chi è?
Come chi è? Piotta, su Novecinquanta.
Per chiudere. Cosa vuol dire per te essere un rapper?
Gioie e dolori. Nel senso che questa roba ti ingloba tanto. Per fortuna adesso sono adulto, mi sono ritagliato delle cose nella vita personale che mi hanno un po’ fatto vivere questo ambiente del rap in maniera serena. Purtroppo essere un rapper comporta anche tanto marketing, che è una cosa in cui non sono mai stato forte, tanto sapersi relazionare con le persone, che è una cosa in cui non sono mai stato forte, però comporta anche tante cose belle, tante ore passate in studio. Poi per me è diventata una professione a tresessanta per lo studio, i laboratori che faccio, i beat, insomma tutta la mia giornata è dedicata a questo. Tanta fatica interiore. Perché sono una persona che si mette sempre in discussione. Le volte che sono stato più sicuro sono state le volte in cui mi è arrivato un ceffone in faccia più grosso, quindi, purtroppo è una continua sfida dover mantenere il profilo basso, mettersi in discussione.
Però mi manca avere i miei amici quotidianamente nella situazione.
Ma non faccio tanta fatica perché sono un relativista, uno che ha tanti dubbi. Magari tuttora quando faccio un disco sono ancora lì a dire, sono capace, sono bravo, è figo il pezzo? Penso che sia comunque un atteggiamento buono. Spero di viverla un giorno in maniera più serena, anche se comunque sono contento di quello che ho fatto nella mia vita. Ciò che mi manca tanto è non aver potuto far business con molti dei miei amici, che hanno preso un’altra strada, perché comunque sono adulti.
Loro sono adulti.
Io no. Essendo diventati tutti adulti… (si ride). Mi sarebbe piaciuto fare squadra con gli MDT, con Kuno, però chiaramente le cose sono andate in un’altra maniera. Però mi manca avere i miei amici quotidianamente nella situazione.
Jack si alza, va in studio. E noi aspettiamo l’album, il disco, il pezzo.