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Mahmood ha portato l’Italia nel futuro.

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Sono passati 4 anni da quando sono andato via di casa, un salto nel futuro che mi ha portato ad abbandonare la mia casa di provincia per ritrovarmi a Londra, quella che è ormai a tutti gli effetti diventata casa mia.

Tra le cose più difficili del costruirsi una nuova vita in un paese diverso dal tuo, c’è sicuramente la necessità di trovare dei punti di contatto con persone dal background molto diverso e che dell’universo Italia spesse volte conoscono solo i caratteri estremi di Gomorra o dei Soprano.

La musica, manco a dirlo, è da sempre uno dei topic con cui persone da tutto i mondo sono in grado di unirsi sotto una sola bandiera a prescindere da credi, razze, tendenze sessuali o ideali politici.

Da grandissimo paraculo quale sono sempre stato, quando mi veniva chiesto quali fossero i miei artisti preferiti mi sono sempre concentrato sulla parte più istituzionale della mia playlist di Spotify: Oasis, Stone Roses, Kanye, Jay, Smiths, Bowie e molti altri. Se solo sapessero…

Se solo sapessero che in vita mia ho ascoltato più volte “Mi-Fist” di Bohemian Rhapsody, se solo sapessero che i brividi lungo la schiena che ho sentito con “M3” i Radiohead non me li hanno mai dati, per non parlare poi di come ascoltare “Mr.Simpatia” al liceo ti conferisse uno status da ribelle degno del miglior Che Guevara. Sì, se solo sapessero…

Il problema è che davvero difficile fare capire a inglesi e americani che in Italia esista qualcosa di diverso da Pavarotti, Bocelli, Il Volo o “Pappalamericano”. Una sfida quasi impossibile che ho nel mio piccolo deciso di affrontare a viso aperto. D’altronde, ogni buon interista sa bene come “mission impossible” altro non sia che l’anagramma di “bel cross di Candreva”.

Quindi, dopo essere entrato in confidenza con alcuni di loro, ho finalmente trovato il coraggio di fare ascoltare loro la musica che davvero viene ascoltata in Italia: da Ghali, a Guè Pequeno, passando per Fabri Fibra, la Dark Polo e molti altri.

Si sono messi a ridere? No, tutt’altro. Molti erano piacevolmente stupiti nel venire a scoprire che anche in Italia ci sia una componente street così forte e che, con tutti i suoi limiti, abbia finalmente interrotto quella dinastia di cantati incartapecoriti delle generazioni passate.

Della serie, Ghali non sarà Battisti ma vuoi mettere con la Pausini?

Ora, io di amici storicamente ne ho sempre avuti pochi ma buoni, e potete ben capire come da solo non potessi sostenere il fardello di aprire il mondo alla musica urban made in Italy, sebbene la prospettiva di andare porta a porta per le vie di Londra a fare ascoltare “Puro Bogotà” fosse allettante. Serviva un episodio, e per fortuna c’è stato: L’Eurovision e il fantastico secondo posto di Mahmood.

Non ricordo se ai tempi in cui ancora vivevo in Italia l’Eurofestival fosse effettivamente seguito, ma qui è da sempre considerato un avvenimento. Proprio per questo motivo, sono infatti stati i miei colleghi a dirmi del piazzamento dell’Italia e di come fossero tutti abbastanza stupiti che il nostro concorrente non fosse un cantante lirico sulla cinquantina.

Oh forte il pezzo di ieri sera! Oddio, siamo sicuri fosse italiano? È Mahmood un nome tipicamente italiano? -ride-

In questa affermazione, lacune culturali incluse, c’è l’assoluta conferma del mio discorso. Finalmente ci siamo presentati in un contesto internazionale con un artista degno di rappresentare questo secolo. Un pezzo impegnato e sofferto sapientemente nascosto dentro a una strumentale paracula, perché in questa società la profondità va saputa camuffare, spesso per il proprio stesso bene. Un look figo e frutto di mille influenze, perché a questo mondo nessuno può realisticamente essere figlio di un solo background. Siamo come corpi composti da tanti mattoncini del Tetris , ognuno con la propria combinazione colorata e quella di questo ragazzo sembra particolarmente figa.

Anche le battute di serie B sulla presunta poca italianità, sono parte di un copione non scritto di un mondo che si ostina a rimanere sempre paese e di frange della sua tribù che camuffano con l’ironia spiccia la propria incapacità di decifrare il futuro.

Grazie Mahmood, che la tua performance possa essere il primo capitolo di una musica italiana sempre più internazionale e sempre più lontana dai “sole mio” dei bei tempi andati.

Ah, dimenticavo. Il disco è molto figo e “Soldi” è pure il pezzo più brutto. Così tanto per dire.

Diego Carluccio
Diego Carluccio nasce, in tutta la sua presunzione, il 26 ottobre del 1990. Ora di pranzo. Essendo la modestia il marchio di fabbrica della casa, pare abbia dato suggerimenti e consigli su come affrontare il parto allo stesso medico primario. Volendo affossare l’insopportabile luogo comune secondo il quale “dai licei esce la futura classe dirigente”, si iscrive al liceo classico e, sebbene provi a farsi espellere e/o bocciare ripetutamente, consegue l’impareggiabile successo di diplomarsi in 5 anni con un sensazionale 60/100. Da segnalarsi la tesina di laurea: un mix di Ramstein, Marilyn Manson e Neonazismo. Iscrittosi per sbaglio alla facoltà di legge alla statale di Milano, rimane ripetutamente intrappolato all’interno di quel subdolo e tentatore tragitto che connette la fermata “Missori” e l’aula di Diritto Privato. Ritiratosi dai corsi a metà anno, dedica il resto della stagione 2009-2010 al fancazzismo professionistico. Desideroso di ottenere una laurea però, scegli la carriera universitaria che ha il maggior numero di punti di contatto con la disoccupazione perenne: nel 2011 si iscrive al Dams. Laureatosi con il voto di 99/110, in onore dei kg e del numero di maglia dell’idolo di infanzia Antonio Cassano, conclude la propria esperienza universitaria con un tesi dedicata a “Fabri Fibra” e al rap italiano. Prima tesina nazionale a contenere un numero di parolacce superiore a quello dei segni di punteggiatura. Come ogni buon “critico” giornalista che si rispetti, non manca, tra le esperienze del giovane Carluccio, un fallimento artistico. Firma nel 2015 un contratto discografico con una label minore sotto lo pseudonimo di D-EGO MANIA. Il disco “Non è un paese per rapper” riesce nell’ardua impresa di vendere meno copie dell’esordio discografico dei Gazosa. Ora vive a Londra, frequenta un Master in Digital Journalism e lavora nell’organizzazione eventi per uno degli hotel più lussuosi della capitale britannica, ma non preoccupatevi: la sua vera passione è dirvi quanto fate schifo. ALTRE COLLABORAZIONI: Rolling Stone, Noisey, Il Milanese Imbruttito

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