Un nuovo album, la sfida di interpretare il reggaeton a modo suo, le sonorità, le classifiche i film e i neologismi. Intervista a Fred De Palma.
Ci siamo visti prima dell’estate, al lancio di Una volta ancora, per cui la mia prima domanda è: com’è andata l’estate?
È stata una bella estate, è stato molto bello vedere il riscontro che ha avuto questa canzone, che non è partita da prima in classifica, ma ha avuto un percorso portato su dalla gente. Le persone hanno iniziato ad ascoltare questo brano talmente tanto che l’hanno poi fatto esplodere. Quindi è stato proprio bello.
Avete fatto molte date?
Moltissime, moltissime. Abbiamo fatto il calcolo che abbiamo preso sessanta aerei quest’estate.
Tantissimi.
Tantissimi, troppi.
In questa estate di incertezze politiche ed economiche, ci avete fatto sognare.
Beh sì in realtà, non avevo pensato a questo aspetto della canzone però, insomma, devo dire che mi hanno scritto veramente in tanti per ringraziarmi di questo brano che li ha accompagnati in questa stagione e che spero li accompagnerà ancora per un po’. Ancora, insomma, siamo belli alti in classifica, sia Spotify che Fimi in generale, da cinque settimane siamo proprio primi. Quindi credo che la gente abbia davvero apprezzato questo brano.
E adesso è settembre e c’è un nuovo album tutto da vivere. Sei pronto? Come affronterai l’avventura?
Guarda, appunto, Una volta ancora è stata un po’ l’introduzione a questo album che tiene queste sonorità, tiene questo mood, ha questo tipo di vibe, che credo e spero possa identificarmi, prevalentemente. Che faccia dire alla gente che lo ascolta, ok questo è Fred. È quello che mi importa maggiormente.
Uebe vuol dire baby, ma vuol dire cambiamento. Spiegami il concetto.
In realtà Uebe, essendo una parola inventata, mi sembrava perfetta come titolo di questo album perché comunque è un lavoro che porta qualcosa di nuovo. Quindi dargli un altro titolo mi sembrava scontato, ho proprio voluto inventare una parola dedicata.
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Qua sta cambiando tutto quanto, politica, mezzi di comunicazione, il modo di fruire della musica. Che cos’è per un musicista, il cambiamento?
Per me è il motivo per cui faccio musica. Trovare nuove sfide personali, appassionarmi di qualcosa, mi fa pensare che questo non avrà mai fine. C’è sempre qualcosa di nuovo, c’è sempre qualcosa che scopri, c’è sempre qualcosa che ti appassiona, quindi credo che il cambiamento sia il motore che dà il via a tutto. Se io oggi facessi la musica come la facevo cinque anni fa, a mio avviso starei fallendo. Quindi credo che sia molto importante.
Raccontami dell’album, che sonorità hai deciso di sposare?
Prevalentemente latine. Le sonorità sono molto reggaeton, ovviamente non canonicamente reggaeton perché c’è una matrice italiana, c’è la matrice del mio percorso di scrittura etc.
È la mia visione di quello che penso sia questo tipo di sound. Credo che, chi ascolterà il mio disco, non ascolterà uno dei tanti dischi già sentiti ma ascolterà un lavoro sicuramente diverso e innovativo per alcuni aspetti.
I featuring: gli artisti che sono con te in questo lavoro li hai scelti per professionalità, tecnica o semplicemente per amicizia?
Entrambe. Sono quasi tutti miei amici amici, dico quasi perché Sofia Reyes l’ho appena conosciuta, ma è molto simpatica, ci siamo trovati molto bene a lavorare insieme.
È comunque una questione di coerenza, tutti gli artisti coinvolti in questo lavoro hanno a che fare con il sound che ho scelto. L’unico brano un po’ fuori da questo mood latino è quello con Shade, che invece è un pezzo molto forte per me, anche se non incarna proprio il reggaeton. Però era talmente real, talmente figo, talmente io e lui siamo amici, che ho deciso di metterlo lo stesso, come se fosse un capitolo a sé dell’album.
Uebe fa venire voglia di ballare, negli attimi del quotidiano: in ufficio, sui mezzi, in cantiere. È questo che cercavi di raggiungere?
Per certi versi. Per altri ho cercato di lavorare a uno spessore artistico, quindi lirico e di scrittura, all’interno di questo genere che è ancora un po’ stereotipato. Quindi ci tenevo a raccontare qualcosa e a far vedere che il reggaeton non è limitato al periodo estivo ma che si può ascoltare tutto l’anno. Nel senso che non ha dei limiti, per me. Questo album cerca di rompere questi limiti.
Per ridere. L’ultima traccia è la hit in spagnolo. Sei già ai livelli della Pausini e Ramazzotti? O invece tieni l’attitudine di Paolo Meneguzzi?
In realtà ti dico la verità. Nonostante sia stato molto divertente fare questo pezzo in spagnolo, credo che se si vuole arrivare all’estero con la musica, vada fatto in italiano. È la musica italiana che deve uscire dall’Italia, non bisognerebbe andare a cantare in altre lingue, ci sono già gli altri che lo fanno.
Però, comunque, visto che c’è Ana Mena, che è spagnola, e lei ci teneva molto a fare questo brano nella sua lingua, mi sono prestato un po’ al gioco. In realtà mi piace puntare all’estero ma mantenendo l’italianità della musica.
Leggi?
No. È assurdo ma non leggo libri. Sono molto appassionato di cinema, guardo tantissimi film che per me rappresentano l’equivalente. Mi ispirano molto di più. E poi ho sempre temuto che leggere dei libri potesse influenzare il mio modo di scrivere perché sono uno che assorbe tanto. Se leggo un libro scritto in un certo modo, magari quel metodo di scrittura può rimanermi impresso e quindi il rischio è quello di perdere originalità nel trovare metafore etc, che è una cosa che mi piace molto fare. Poi detto questo non sono proprio appassionato in generale della lettura.
Il tuo film preferito.
È un po’ banale dirlo, ma quello che mi ha colpito di più è sicuramente Pulp Fiction, per un insieme di cose. Ci metto anche Carlito’s Way, a pari merito. Nonostante siano due registi differenti, ritengo che entrambi riescano a trasmettere quelle situazioni, il clima.
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Cosa ti piace di Milano.
Il business (ride). Fondamentalmente Milano è una città improntata su quello. Ci sono tante opportunità, è una città che ti offre tanto se ci sei dentro.
Com’è venire dalla realtà indipendente e arrivare a confrontarsi con una major?
Penso che cambi molto poco. Penso che la major ti dia i mezzi per arrivare dove vuoi arrivare, mentre da solo, da indipendente, hai dei limiti dovuti al fatto che quando inizi non hai soldi, conoscenze, non sai come funziona bene il mercato. Rischi così di ricadere negli stessi errori. Dentro una major ricevi invece un supporto continuo, puoi discutere sui tuoi progetti e si cerca di lavorare tutti insieme in una direzione.
Il tour instore è in rampa di lancio. A prescindere dalla promozione, quale pensi che sia l’importanza di un instore dal punto di vista dell’artista e dei fan?
Io non credo molto negli instore. Credo sia una cosa passata. Che sia stata una bella strategia per vendere dei dischi in un periodo in cui questa cosa era interessante. Il disco fisico io non capisco dove lo mettono, i ragazzi che lo comprano, dove lo inseriscono. Non riesco a capire qual è il posto in cui ascolteranno il disco fisico. Credo che sia più una cosa di avere il gadget dell’artista e fare una foto. Quindi diciamo che ci credo poco per questo motivo. Poi ovviamente c’è il lato umano che è quello dell’incontro, delle persone che magari ti seguono da anni e non hanno mai avuto occasione di poterti conoscere. Quella è la parte che comprendo, dell’instore. In generale, l’idea di andare a firmare i dischi penso rappresenti un po’ il passato, non il futuro.
Se dovessi incontrare un ragazzino per strada, con tanti sogni e voglia di riuscire, che magari è appena tornato a scuola, cerca una tipa, ha voglia di mettercela tutta ma non sa da dove partire, quale canzone gli faresti ascoltare del tuo nuovo album?
Uebe. Gli farei sentire Uebe perché parla proprio di questo. La canzone parla di un ragazzo e una ragazza che vengono dal niente e che nei loro settori ce la fanno. In realtà penso sia anche un pezzo motivazionale per i ragazzi che hanno dei sogni. Ci ho messo dentro anche Boro Boro che fino a poco tempo fa era uno di loro, volendo dire. È molto giovane ed è entrato in questo mondo musicale da poco. Prima era anche lui un ascoltatore, un ragazzo che sognava di fare questo nella vita. Poi è di Torino, poi ha fatto successo con questo brano reggaeton, quindi mi sembrava anche la persona giusta da mettere in questo brano. Quindi penso che gli farei ascoltare quella.
Se il rap fosse il calcio, tu che giocatore di serie A saresti?
Non seguo il calcio, ma in questo momento, che sono primo ovunque, sarei Cristiano Ronaldo (ride).
Direi più se la musica, non il rap, se fermassi la fotografia della musica degli ultimi due mesi, sarei Cristiano Ronaldo.