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Un FFiume di parole nella nostra intervista al rapper calabrese sul suo ultimo lavoro: The Irhu Experience

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Il 3 maggio è uscito The Irhu Experience, l’ultimo disco di FFiume.

Inizialmente, profondamente deluso dalle ultime uscite nel rap italiano, non avevo assolutamente voglia di ascoltarlo per preparare, poi, un’intervista, ma non appena ho fatto partire le tracce mi sono dovuto ricredere.
L’album è Un Album con la U e la A maiuscole, ricco di sperimentazioni musicali e virtuosismi linguistici.
C’è una storia, poi, dietro il disco: una storia che nasce dall’incontro di FFiume con il beatmaker pugliese Irhu e che viene portata avanti per tutte le 13 tracce tra amore, morte, speranza, musica e ricordi tenendosi sempre in equilibrio tra innovazione e tradizione.

Dunque FFiume cercherò di essere breve e coinciso ma vorrei anche cercare di cogliere con precisione il significato dell’ultimo del disco!
Proprio per questo motivo partirei dal principio e, in questo caso credo che il principio sia Otranto, o meglio, Irhu. Come sei entrato in contatto con questo ragazzo? Cosa ti ha dato per titolargli il disco?

Irhu è nu vagnone de core, prima di tutto. Un soul boy con un gran talento e feeling per la musica. Tanto già basterebbe per intitolargli l’album, in un certo senso. Ci siamo incontrati per le vie del net, oramai cinque o sei anni fa, grazie alla musica. Lui conosceva il mio lavoro, e ne apprezzava il lato del beatmaking, oltre al rap. Io apprezzavo il suo fare genuino. Da un po’ di tempo, in Italia, specialmente al Sud, ha iniziato a mettere radici una scena fatta di nuove leve interessate all’ampliamento delle frontiere del beatmaking, inteso come forma di creatività libera, di matrice hip hop, con una fascinazione post-dilliana e un lato squisitamente elettronico, senza menate esclusivamente “hip hop” nel senso più italico e palloso del termine. Il centro di tutto era ed è sempre stata la musica e le sue possibilità, e questa cosa nel movimento ha creato good vibes e unione. Ho sempre osservato con entusiasmo e curiosità la cosa, pur restandone, in effetti, ai margini. Irhu, di questa scena, per me è stato ed è, anche se ormai produce di meno rispetto a prima, uno dei massimi e più stilosi esponenti, oltre che promotori. I nomi sono tanti, le città anche, ci vorrebbe un articolo a parte solo per parlare di questo. Shout out a tutti i miei beatmaker preferiti, sapete chi siete! Comunque, Irhu all’inizio mi contattò per chiedermi un beat per una compila curata dal suo crew, Bluesteady Triptik, ormai cinque anni fa, suppergiù. La compila voleva racchiudere un tot di beatmaker e producer da tutta Italia. Cercatevela. Da lì siamo rimasti in contatto e ho iniziato sempre di più a seguirne le uscite. Abbiamo cominciato a scambiarci file e ispirazioni varie e, per un po’, tra cazzi e mazzi di ognuno dei due, ci siamo persi di vista… poi un giorno Gigino ha iniziato a svuotare gli hard disk, tirando fuori dei beat tape da urlo, uno dietro l’altro, un paio in particolare intitolati Perle ai Porci, in vari volumi. Spulciandoli ho trovato beat che mi hanno parecchio ispirato, e gli ho chiesto di poterci scrivere e fare dei pezzi. Lui ha accettato, e così sono nati i primi tasselli della nostra collaborazione, tipo Promenade II, e Salomone, e da lì ci siamo detti “Oh, ma lo sai che…”, e il resto è venuto automaticamente. Questo album è il risultato di una partnership, nata e proseguita con scambi intensi di file e sessioni online per tutta la durata del disco, che è stato realizzato in un periodo di passaggio per entrambi, altra cosa che ci ha accomunato e unito, e il significato di “irhu” appunto è quello, il cambiamento, il numero 11, una serie di cose assurde che si sono incastrate, e… eccoci qui… quindi per più di un motivo era logico intitolare l’album così. È una convergenza di energie superiori.

The Irhu Experience è anche un gioco di parole (uno dei tanti nel disco) con il termine giapponese “iru” – essere ma soprattutto con il significato astrologico della parola che significa “Il cammino della vita”. Mi sembra proprio che il disco sia un cammino, dalla Calabria a Londra, passando per Parigi e, a questo punto, anche per Otranto!

Ti sembra giusto! Il fattore importante è che il disco trasmetta, in maniera del tutto naturale e spontanea, una sorta di movimento. Un fluire, in un certo senso. E questo è. Il viaggiare fisico si riflette nel viaggiare interiore, trovarsi spesso da solo in posti di passaggio, o non luoghi, ti porta a introiettare quello che passa intorno, oppure a immaginarti cose, situazioni, anche solo guardandoti in giro. Così tu rivedi e rileggi a più livelli quello che ti succede, e che cambia intorno a te, e che ti cambia, e tu stesso “succedi” diversamente. In sintesi, di quello si tratta.

Mi sembra anche che ci sia una continua ricerca sia a livello di sonorità  (come nel brano 1994) sia di innovazioni linguistiche! In fondo ogni viaggio che si intraprende è per cercare qualcosa, tu hai trovato quello che cercavi?

Sì. Volevo esattamente questo disco, senza saperlo precisamente nel dettaglio, in toto, ma a risentirlo tutto centra perfettamente l’idea che man mano è venuta fuori. Ci abbiamo messo un paio d’anni a finirlo, tra tutto. Il corpus di scrittura e i beat sono venuti subito, nell’arco di pochi mesi, ma il lavoro di rifinitura e cesellatura ha preso anni, seppur con dei momenti di pausa dovuti a rispettivi impegni. Però è esattamente come lo volevamo. Il sound, le liriche, la delivery, tutto. È un’opera di cui siamo molto contenti.

Nonostante la ricerca di suoni nuovi mi sembra che The Irhu Experience sia comunque un disco classico, molto blues e ricco di campionamenti. In questi anni di grandi rinnovamenti musicali come credi di inserirti nel rap game? Ti senti più un tradizionalista o un innovatore?

Aspetta… fammelo dire… dischi classici, dischi moderni… rinnovamenti, rap game… calma… qui nessuno inventa o ha inventato niente, ognuno ha dato e dà la sua versione di cose che esistono già… le note sono sette, sempre quelle, è come le rimescoli che conta, le combinazioni che ci crei, idem dicasi per le lettere dell’alfabeto, e via dicendo, per me esistono solo cose belle e cose brutte. Dischi che ti piacciono e dischi che non ti piacciono. Come “rinnovamenti musicali” di per sé non ne vedo tanti, vedo stravolgimenti, evoluzioni anche bislacche, a volte involuzioni e aberrazioni di genere, ma non mi pare che nessuno abbia reinventato la ruota. L’hip è sempre hop, e poi c’è l’hip che è pure pop. E va bene così, a me la varietà piace. Ogni cosa ha la sua dignità, più o meno, basta capire le differenze e viversela easy. Io dove sto nel rap game? Non lo so, me lo devi dire tu… mi devi dire cosa intendi tu per “rap game”… Il mio rap lo conosci, dipende da te che ascolti dirmi dove pensi che stia o che valore abbia, se ne ha uno… il “rap game” per me è chi fa le meglio rime sui meglio beat, chi crea immagini fighe e racconta storie senza essere banale, e fa danzare le sillabe sulle batterie come un cazzo di breaker sul linoleum. È un’altra cosa, forse, rispetto a quello che intendi tu, come “rap game”… Personalmente, non mi pongo problemi, tradizione, innovazione, boh… Mi interessa fare bene quel che amo. Fare della roba che mi piaccia, di cui io possa andare fiero. Da ragazzino, quando ho iniziato, non volevo essere famoso, non volevo andare in Top 10, mi interessava un’altra roba. Volevo esprimermi, resistere a un sistema di mafia alzando la voce, uscire e rompere il culo con la musica e le idee. Volevo fare quello che faccio, in libertà creativa, al fottuto top di gamma. A tutt’oggi, faccio quello che sento, e lo faccio al massimo delle mie possibilità. Lo propongo a chi ne vuole. Io cerco il groove, scavo dischi e scrivo rime, produco quello che mi fa muovere, che mi piace e mi fa star bene. Le etichette non m’interessano.

ffiume
ffiume

Il tuo mi sembra un disco abbastanza raro nel panorama musicale, soprattutto in quello italiano, perché si ascolta dall’inizio alla fine: non è solo un insieme di canzoni ma un vero e proprio concept album. Cosa ne pensi di questa nuova tendenza di sfornare più playlist che veri e proprio “percorsi musicali” (vedi More Life di Drake)

Grazie, questa che mi dici è una cosa molto bella, sono contento che l’album ti abbia dato un flow e un senso del genere. Mi preoccupa però il fatto che tu dica quel che dici circa gli “ascolti” e le “playlist”. È una roba un po’ più triste, in realtà. Ridendoci, ma manco troppo, nel disco ne parlo abbastanza chiaramente: ascoltatelo e capirete… In merito alla tua domanda, ripeto quanto detto prima, in altro modo: non esiste IL modo, esistono I modi, a ciascuno il suo. Credo che il format di Drake (di cui non ho ascoltato l’ultimo album, qualcosa dei precedenti per avere un’idea, specifico) e di tanti altri come lui sia un ottimo specchio dei tempi che viviamo. La tendenza non è solo una questione di “playlist”, l’effetto playlist svuotata di contenuti appunto è un effetto, non una causa… se ci pensi anche The Irhu Experience è una playlist… Credo invece che la tendenza sia “non pensare troppo”. O affatto. Quello devi guardare, la causa da cui nasce una “semplice” playlist. Viviamo in un mondo e in un modo molto veloce e superficiale, i modelli di consumo dell’informazione sono cambiati, si salta da una cosa all’altra senza approfondire, un po’ di questo un po’ di quello, e alla fine si fa un mischione di tutto ma niente di radicale, nel senso stretto del termine, con una radice, con una verticalizzazione della conoscenza. Andare in profondità sulle cose, oggi è raro, più difficile. Ti stufi, hai difficoltà a mantenere l’attenzione su una cosa sola, hai troppa roba da assaggiare, sei bulimico. Oggi è tutto molto orizzontale, e si riflette nel modo di pensare, agire, o di non pensare o non agire, lo vedi in mille sfumature là fuori. Io rispondo a un’intervista, e prima di iniziare penso che, forse, se mi dilungo sulle risposte meno gente leggerà. Se creo un mix o un podcast per un sito, non vado oltre la mezz’ora. Sono alcuni esempi, ma lo vedi ovunque. Quindi, chiuso il trip sociologico, ti dico che se la playlist ha un senso, non ho problemi. Se è una mossa “disposable”, per avere facili consensi, oggi c’è e domani scompare. Anche qui, scegli tu come e dove stare. Ma capisci il perché delle cose.

Mentre ascolto il tuo disco mi chiedo da chi ti sei sentito più influenzato per scriverlo o se c’è qualcuno a cui ti ispiri. Insomma cosa ascolta FFiume?

Ho avuto sicuramente ispirazioni diverse, non solo musicali. Per la mia scrittura, molto viene dalle mie letture, dalle mie frequentazioni, dai discorsi con gli amici, dai miei studi. Leggo di tutto, dai blog musicali fino a Camilleri, che scrive un po’ come parlava mio nonno, da Manzini fino a Hemingway alla saggistica, mastico davvero di tutto. Altre ispirazioni vengono dagli album di foto di famiglia, da un percorso di mille dettagli visuali, dal mio lavoro. In materia di ascolti, da digger e amante della musica tutta, posso dirti di una valanga di roba. Molta musica italiana, di tutte le epoche, e di generi diversi. Dagli anni Sessanta agli Ottanta, prevalentemente. Sonorizzazioni, soul, pop, jazz, funk, reggae, rock, non ho paletti di genere, solo dischi belli o dischi brutti, ancora una volta. In ambito hip hop, durante la stesura dell’album ho ascoltato tantissimo Roc Marciano, The Connection, Ka, The Doppelgangaz, esponenti delle nuove correnti hardcore east coast, in generale, assieme a classici di sempre, da EPMD a Gangstarr. Guru è il mio guru, forse la più grande influenza sul mio rap, riposi in pace. E poi Q-Tip, gli ATCQ e Jay Dee, capisaldi per me, o liricisti come Oxmo Puccino o il primissimo Roots Manuva, Lord Finesse, A.G. e Showbiz., Diamond, gli Ultramagnetic, The 45King… hai voglia… Ultimamente, invece, da quando sono usciti Westside Gunn e Conway, quello è il rap che seguo e mi piace. Cinematografia vera. Original GXFR brand ambassador, già in tempi non sospetti, chiedete ai ragazzi di strettoblaster e ne riparliamo.

Tu e Irhu avete sviluppato un rapporto che è nato sul web, questo mi porta inevitabilmente a chiederti come ti rapporti con la tecnologia, se prendi precauzioni quando interagisci con degli sconosciuti on-line e se vedi un futuro della musica sempre più legato ai social network.

Benissimo, il mio rapporto con la tecnologia è fantastico. La uso, cerco di subirla il meno possibile, sono abbastanza informato sui suoi rischi e su quello che comporta essere online oggi. E le precauzioni con gli sconosciuti le ho, vivere online è come stare in una piazza. Una piazza con una memoria storica molto forte. E come se stessi per strada o in piazza devi comportarti. Anche meglio. Quello che butti fuori sul net è scritto nella pietra. E poi, oh, never say never, non sai mai. Stai all’occhio, però, quello sì. Ci lavoro col net, cerco di tenermi al passo. In Italia molti temi del mondo digitale sono appannaggio di pochi, Berlusconi vent’anni fa ci ha sparato sui piedi anche su questo fronte, non aveva interessi a diffondere il net, ma la tv, e noi ancora oggi siamo il paese europeo con un alfabetismo internettiano da spavento, e tutto quel che ne consegue in termini di servizi e infrastrutture web. Pensa che ancora nel 2012 oltre il 40% della popolazione nazionale non aveva mai usato internet UNA e dico UNA volta sola. Internet, i social media, tutto quello che è web, è un riflesso del nuovo ordine mondiale, da una parte. Bisogna maneggiare il tutto con cura. Ci stai comodo sopra se sai che sotto non c’è niente, e devi tutelarti il più possibile. Però, da un altro punto di vista, è uno strumento, neutro in quanto tale, e la differenza la fa chi lo usa. Pensa a una forchetta: dalla in mano a uno chef e dalla in mano a un delinquente. È sempre una forchetta, la stessa, ma in realtà diventa due cose diverse.

In realtà quest’ultima mi sembra una domanda un po’ scontata vista la tua campagna su Musicraiser! Ce ne parleresti? Pensi che questi siano i primi passi per sbarazzarsi definitivamente delle etichette discografiche?

Per chi ne vuole, può trovare tutte le info a questo link, e che dirvi… la mossa è dal basso, per creare un qualcosa di unico, dal produttore al consumatore, senza filtri, per un’esperienza che non sia solo digitale ma anche tangibile, fisica. L’idea è di una creatività estesa, per come la vedo io, che parte dalla musica ma trascende la stessa. Si tratta di espressione libera, un processo articolato su più livelli, filtrato dalla lente del performer multimediale, in un certo senso, più che del musicista e basta. È intrattenimento per chi vuole scavare un po’ più in profondità. Assieme a un vinile 180 grammi dell’album, offriamo la possibilità di avere degli altri supporti, per esempio un fumetto curato da quel King assoluto che è Antonio Solinas assieme a Paolo Gallina, un 45 giri con degli inediti esclusivi, e una serie limitatissima di tutte le strumentali sempre su vinile. Oppure si possono anche prenotare delle sessioni di workshop in mia compagnia per approfondire il beatmaking o la scrittura. La scelta di ampliare la produzione implica una fisicità che va in netta contrapposizione alla voga attuale della musica solo come digitale. È un po’ un grido di resistenza, non sovvertiremo il mercato ma non lo vogliamo subire passivamente. Se nessuno offre un’alternativa, nessuno avrà una scelta. Noi per primi. E per quanto riguarda il superamento delle etichette, intese come major, queste non saranno superate finché gli indipendenti non gestiranno più soldi di loro, e finché non creeranno altrettanto rumore con budget molto minori. Ci sono molte etichette indipendenti che fanno ottimi lavori, e con qualità. Nell’ultimo periodo il punto è quello. Avere spazi di visibilità, prenderseli, ove possibile, e proporre. Finché il grosso del business sarà payola tutto questo sarà difficile. Esistono modi e modi, anche per il mainstream. Guarda Salmo, per esempio. Lui è andato dritto in culo alle major, loro si sono piegate a lui, lui vende a loro, in un certo senso, e loro rivendono. E nasce tutto dal basso. Certo che si può fare. E-Green, stessa storia, in altro senso ma stesso fine: non c’è bisogno di etichette musicali, non in senso stretto. C’è bisogno di idee valide, di professionisti seri e di ascoltatori che abbiano idee chiare. Ti piace il rap? Non è obbligatorio che tu lo faccia, amico mio, mi spiace. Puoi serenamente essere una hip hop head supportando e diffondendo il tuo sound, il tuo gusto, il tuo artista preferito. Sticazzi le etichette. Il pubblico, che sia di 40 o di 400 o di 40 milioni, se ti vuole davvero ti trova e supporta. Poi sta a te dare loro quel che vogliono, ma grosso modo questo è.

Grazie ancora dell’attenzione e complimenti per il disco! Prenditi pure dello spazio extra se vuoi aggiungere qualcosa!

Grazie Hano per lo spazio. One love to Carlito e la posse. Pace, amore & unità nelle danze, qualunque genere ti pompi. L’affermazione del sé non passa per la negazione dell’altro, ma dall’avvantaggiarsi delle differenze, rispettandole. State bene.

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