Da qualche settimana è uscito il nuovo album di Claver Gold “Questo non è un cane” che ha confermato ancora una volta le straordinarie capacità del rapper marchigiano. In questo lavoro è stato accompagnato da Gian Flores che ha prodotto tutte le basi dell’album, dando così un identità ben precisa al suono che ha fatto da sfondo alle rime di Claver Gold.
In questa intervista ci parla del suo attaccamento all’hip hop, di come ha vissuto la pandemia, del progetto “Infernum” con Murubutu e di tanto altro ancora. Buona lettura.
Sono passati 5 anni dal tuo ultimo album da solista (Requiem), in che cosa è diverso “Questo non è un cane”? Quali sono le sensazioni che ti hanno spinto a scrivere le canzoni di questo album?
Avevo iniziato questo disco prima di “Infernvm”, già allora avevo qualche idea e pensavo fosse giunta l’ora di un nuovo disco. Il disco con Murubutu è stato poi un progetto che mi ha portato via molto tempo e ha richiesto molto impegno – in fase di ricerca, scrittura, registrazione, live e altro ancora -, quindi avevo accantonato gli altri progetti. Concluso il ciclo di “Infernvm” mi sono potuto dedicare un po’ ai miei piaceri, come l’arte, il cinema o la letteratura, e ho quindi ricevuto molti stimoli; ma è stata soprattutto una crescita a livello personale – sono passati cinque anni da “Requiem” ad avermi portato a scrivere un nuovo disco.
In questo intermezzo c’è stato appunto il tuo lavoro con Murubutu “Infernum”, un progetto più unico che raro nel genere…Parlaci di questo progetto, come è stato lavorare col prof. e quanto sei soddisfatto di “Infernum”?
È stato un lavorone, sin dal concepimento – ad esempio, c’è stata una fase di rilettura accurata della Divina Commedia -, come ad esempio per la selezione dei brani e degli argomenti. È stata una fase embrionale molto lunga, alla quale è seguito un altro grande lavoro di selezione dei beat, perché dovevamo essere entrambi d’accordo a livello di dischi. È un progetto che mi ha dato tanto a livello professionale e culturale, lavorare con Alessio è sempre un piacere e non vedo l’ora di poter lavorare a un altro progetto insieme.
Il nuovo album è interamente prodotto da Gian Flores, dicci qual è il vostro processo creativo, come siete arrivati a questa “armonia”?
L’armonia nasce quando abbiamo iniziato a lavorare a “La maggior parte”, una raccolta di alcuni miei vecchi brani inseriti in un solo progetto. Da lì abbiamo capito che si sarebbe potuto fare un buon lavoro, spero di poter continuare a lavorare con lui, perché artisticamente e professionalmente è un professionista vero. Sa cosa va fatto, riesce a immedesimarsi negli artisti che produce, e per ognuno fa un lavoro diverso. Sono molto felice che abbia prodotto questo album, e in realtà abbiamo già qualche chicca pronta che spero tireremo fuori presto.
Non posso non chiederti come hai vissuto il periodo della pandemia, sia dal lato umano che da quello artistico…
Per quanto sia stata dura per tutti, per me è stato un momento di “pausa”. Venivo da un tour di quasi 60 date legato a “Requiem”, avere la possibilità di fermarmi a casa, avere i miei tempi e i miei spazi senza dover partire ogni due giorni, per me è stato rasserenante, perlomeno inizialmente. Poi quando si è troppo soli si fa i conti con sé stessi e con le proprie paure, e lì si fa dura. Però, almeno inizialmente, ho avuto la possibilità di tornare in contatto con i miei interessi e le mie passioni. La seconda e la terza fase sono state più dure.
Hai detto che questo disco tratta argomenti “delicati”, quali sono questi argomenti? Li hai vissuti in prima persona o parli anche di cose che ti stanno a cuore ma che magari non hai avuto modo di toccare con mano?
Direi delicati sia a livello personale che a livello di società. Arrivati al punto di evoluzione attuale del rap, con ormai molti artisti davvero forti a rappare, credo sia importante parlare di chi non ha voce. Questo è quello che fa il mio disco: racconta le mie storie, storie personali, storie vissute in terza persona, storie che mi hanno ispirato, magari anche prendendo spunto da fatti su cui io poi ho costruito la storia; e poi, come sempre, film, libri e arte in generale. Credo che il momento storico che stiamo vivendo ci richieda di parlare di chi non ce la fa, di chi fa fatica ad arrivare a fine mese, di chi soffre la fame, invece che continuare con un’autocelebrazione fine a sé stessa. In questo periodo stiamo tutti bene grazie al rap, non penso sia necessario continuare ad autocelebrarsi. L’ego, il sessismo, il machismo e argomenti simili non mi riguardano più – e, in generale, mi hanno riguardato pochissimo lungo la mia carriera.
Nel disco parli spesso di Bologna, parlaci del tuo rapporto con questa città e quanto ci sei legato
Bologna è una città a cui sono molto legato, sia culturalmente, che umanamente, che musicalmente. È una città che mi ha cresciuto, che mi ha svezzato – sia a livello umano che nel rap. Il suo essere multietnica, piena di persone diverse che riescono a convincere in armonia, è stato fondamentale per sviluppare la mia personalità, mi ha reso ciò che sono. Senza il lungo periodo trascorso a Bologna, probabilmente non sarei la persona che sono. La porto nel cuore, è una città a misura d’uomo, quando sono arrivato da ragazzo era ancora la capitale dell’hip hop italiano in pratica, era ricchissima di laboratori, concerti, eventi, jam. Una bomba atomica.
Sofferenza, inquietudine, incertezza… tutti sentimenti forti e dolorosi che però se incanalati nel giusto modo possono portare ad un modo più profondo di scrivere canzoni, sei s’accordo? E’ anche il tuo caso?
Credo che alcuni sentimenti diano lo spunto per scrivere canzoni migliori. Nel mio caso la sofferenza, la tristezza, la malinconia mi spingono a scrivere determinati tipi di testi. Ciò però non significa che se non soffri non puoi scrivere canzoni, o che se non hai vissuto una storia d’amore triste, non puoi raccontarla in musica. Credo che, in alcuni di noi rapper, si senta molto quando le storie sono reali e quando invece sono poco sentite.
Nonostante “Questo non è un cane” sia principalmente un disco con canzoni d’amore, viene fuori sempre il tuo flow e la tua attitudine hip hop al microfono… Quanto giudichi importante questo fattore?
Io non direi principalmente canzoni d’amore, anche perché sono 17 tracce – 15, togliendo intro e outro -, e di pezzi d’amore, anzi, di brani che raccontano di storie d’amore, ci sono “Josephine”, “Gitana”, “Fragole e miele”, e forse un po’ “Domenica”. Non direi che sono la maggior parte; detto questo, però, per me è molto importante il fortissimo legame che ho ancora con l’hip hop. Mi piace essere individuato come qualcuno che faccia hip hop, che usa il rap come fine e non come mezzo. Mi piace studiarlo, ascoltarlo, farlo, mi piace che qualcuno che mi incrocia per strada possa subito capire “cazzo, questo fa hip hop”. Che la gente che viene ai miei live percepisca fin dalla prima nota questa attitudine.
Hai detto anche che non volevi altri rapper dentro a questo album, perchè?
Non volevo che altre persone rappassero in questo disco perché è un progetto molto intimo e personale, come altri lavori della mia discografia – “Tarassaco”, “Mr. Nessuno”, “Melograno”. Anche in questi dischi ci sono pochissime strofe altrui: sono molto geloso della mia musica, faccio fatica a condividerla. In questo disco forse è ancor più evidente: è un disco per la gente, della gente, non aveva senso aggiungere una strofa che potesse essere utile solo in ottica di stream, views e visibilità. Ho inserito solo la strofa di File Toy perché è coerente con il disco, lui è un amico, un “cane“, ha vissuto ciò che ho vissuto io, le mie difficoltà – ognuno a suo modo – e lo ritengo un grande rapper, una grande persona e un amico che si lancerebbe tra le fiamme per me. Volevo solo persone di questo tipo nel mio disco.